…et RTS facta est

Ultimamente sembra che mi sia tornata la voglia di giocare col PC, dopo un lungo periodo di disintossicazione. Tornare a casa e continuare a fissare uno schermo dopo averlo fatto dietro compenso per l’intera giornata pare non pesarmi più di tanto. La situazione muterà velocemente, ne sono certo. Immaginate tutti facilmente anche che il titolo più gettonato rimane sempre quel perfetto connubio tra riproduzione digitale e dinamiche “da tavolo” che risponde al nome di Civilization V, però con una certa sorpresa mi è tornato appetito per gli RTS, acronimo di Real Time Strategy e che identifica il filone dei giochi che noi italici chiamiamo strategici in tempo reale. Ne parlavamo non più di qualche giorno fa il buon domnik ed io a proposito di un suo ritorno di fiamma (guarda un po’ le coincidenze) per Age of Mithology e tutto questo riecheggiare di RTS mi ha portato qui, a scrivere questo articolo mentre penso a tutti quei titoli che hanno affollato (letteralmente) la mia vita. Ci sono Command & Conquer e Dune, la serie Earth e i vari Homeworld, i due StarCraft, Age of Empires ed Empire Earth… Quanto tempo speso a cliccare furiosamente qui e là, quante sere passate alla caccia della giusta manovra offensiva …e quanti quattrini spesi!

Nonostante da molti ricordi mi separino molti anni e moltissimi videogiochi, quelli legati agli RTS sono ancora vivi e piacevoli come il giorno in cui sono stati forgiati. Al contrario di molti altri titoli e generi che spesso hanno lasciato poco nulla alla mia persona, tutto ciò che ho appreso giocando senza gli esagoni l’ho conservato in maniera naturale e senza sforzo, dalle scorciatoie per i raggruppamenti di unità alla pazienza necessaria a preparare un attacco in maniera efficace (oddio, qui il Tonno potrebbe essere di parere diverso). Quello che in realtà cerco di esprimere è il mio amore nei confronti di questo genere che, messo a dura prova dal tempo e dai bimbetti con le mani grassocce e il portafogli di papà, ha saputo regalare così tanto a me e a tutta una generazioni di videogiocatori. La famosa generazione di mezzo, quelli nati col pallone e l’aria aperta, le corse, la bicicletta e la canna da pesca, finiti poi intrappolati in un mondo digitale fatto di Sensible Soccer e Geoff Crammond, segnati profondamente da Matrix ed infine divisi dal bipartitismo 3Dfx – nVidia.

E così, in un turbinio di pensieri talmente vorticoso da farmi smarrire il filo logico, ora mi ritrovo qui a chiedermi quale sia il nume, il dio, l’istanza a cui volgere il mio muto ringraziamento per la creazione di questa geniale declinazione del videoludo, quel genio o quei geni che con il loro lavoro hanno segnato profondamente ed indissolubilmente tutta la storia dei videogiochi (e magari non solo). Forse non esiste un’entità precisa, non una persona, non un gruppo, non un’azienda, perché tutti sanno che nulla nasce per caso e non c’è mai un uomo solo che compie il balzo nel vuoto: altro lavoro e altre intuizioni hanno condotto fin lì. Parimenti non c’è un solo gioco che segna l’inizio di un genere, ma per diversi motivi spesso si rivela cosa ardua approfondire l’argomento: andando indietro nel tempo le informazioni si fanno vaghe ed imprecise e soprattutto i parametri che delimitano un genere, che sono assodati oggigiorno, all’epoca erano caratteristiche peculiari, innovazioni o addirittura fantasie. Negli anni ruggenti degli albori spesso era difficile per gli stessi sviluppatori capire quale portata avrebbero avuto le proprie idee e le proprie implementazioni.

Ma qualcuno, invece, sì: sensibilità ed eclettismo, convinzione nella bontà delle proprie idee e carisma si concentrano, il risultato è qualcosa di sensazionale, qualcosa che farà storia. E’ quello che accade a metà degli anni Ottanta quando i programmatori Brett Sperry e Louis Castle si associano fondando a Las Vegas la Westwood Associates. Da quelle poche menti e dalle molte notti insonni, nasce Dune II, il capolavoro che per convenzione viene indicato come il “primo della sua specie” perché combinando molte idee già viste in un sapiente mix indicò chiaramente la strada per la fisionomia degli RTS moderni. Il concetto di RTS, ovviamente, è stato molto ampliato nel tempo e oggi ricadono sotto questa etichetta anche titoli molto diversi fra loro. Tra questi ce ne sono alcuni che certamente spiccano per caratteristiche uniche o per elementi ripresi da altri generi, ma in generale esistono delle costanti che sono necessarie per rientrare nella definizione di RTS. Ed è proprio nella definizione di queste “costanti di genere” che trova la sua rilevanza storica quel celebre, nonché meraviglioso, Dune II di Westwood, primo gioco ad unire tutte quelle cose che fanno di un RTS un RTS.

In molti indicano quale prima scintilla di questa fantastica e romantica storia l’uscita sul mercato di Utopia, un gioco del 1982 per Intellivision che fu programmato Don Daglow e cui un certo Sid Meier ha rivolto qualche anno dopo lo scherzoso commento di Civilization 0.5. Per la prima volta c’era da gestire il proprio territorio (un’isola) costruendo edifici e veicoli. Fu poi la volta di The Ancient Art of War [qui] distribuito dalla defunta Brøderbund nel 1984, grazie agli sforzi di produzione fu rilasciato per Apple II, Macintosh, MS-DOS, Amstrad CPC, Atari ST, PC-88, PC-98. Questo gioco introduceva un concetto vago di trama legandolo a delle campagne (sostanzialmente una serie di mappe) ed una modalità che potremmo considerare il progenitore della moderna capture-the-flag. Ma l’industria dei videogame avrebbe fatto a meno degli RTS per ancora molti anni: c’erano ancora altri elementi da costruire.

In questo fu fondamentale l’apporto di Herzog Zwei per Sega Mega Drive (1989), programmato dal solo Takashi Iwanaga e prodotto da Technosoft grazie al lavoro di sole tre persone. Pur vittima di una fallimentare campagna di marketing che lo relegò ad un ruolo da comprimario sul mercato, ed anche se non vide mai la luce una versione PC, segnò per sempre le fantasie dei videogiocatori dando per la prima volta la possibilità di comandare direttamente molteplici unità di un esercito variegato: ciascuna delle unità aveva caratteristiche peculiari e differenti possibilità di manovra, attitudini a svolgere determinati compiti; il giocatore poteva sfruttare al meglio queste caratteristiche attraverso l’uso dei comandi che potevano essere eseguiti anche senza la sua supervisione, come nel caso del pattugliamento. Il terreno di combattimento, diversificato non solo per ragioni estetiche, diventava un amico/nemico che riservava ripari, ostacoli, punti ciechi; occorreva studiare strategie ad hoc per superare gli scontri valutando l’impatto sulla mobilità delle unità e limitazioni alle possibilità di offesa. Tutti concetti veramente nuovi. L’obiettivo di gioco era colpire e rendere inoperanti le strutture delle basi nemiche difendendo al contempo le proprie, la gestione delle risorse non era diretta ma ovviamente dipendeva dallo stato di salute della propria base.
Insomma con il titolo della Technosoft il passo in avanti fu decisivo, la strada era tracciata.

Ma, come ho già anticipato (“E mo m’hai rovinat’a sopresa…“, direbbe il menestrello romano), quel gioco che cambiò tutto fu Dune II, che ebbi la fortuna di comprare nel maggio del 1994, sulle ali dell’entusiasmo per il mio 486DX2 nuovo fiammante, in un fortunato ordine (fatto un po’ a caso perché ero molto giovane ed ordinavo da un catalogo a me sconosciuto raccattato chissà dove da mio padre) insieme al mitico Speed Racer (uscito l’anno prima [qui per chi non lo conoscesse]) e al cervellotico Birds of Prey [qui].

Il titolo completo era Dune II: The Building of a Dynasty, misteriosamente ribattezzato Battle for Arrakis nel terribile porting per SEGA MegaDrive (che, per chi se ne fosse dimenticato, all’epoca era quasi dio nell’intrattenimento videoludico casalingo),  e probabilmente sarà difficile trovare un geek della generazione di mezzo di cui qualche capoverso fa che non ricordi le schermate dei mentat intenti a interrogare sui dettagli delle pagine del manuale (ebbene sì, era la prima forma di protezione dalla pirateria …il bis-bisnonno dei sistemi di DRM) o la memorabile (davvero) scena dell’harvester che dava il via all’epico filmato introduttivo. Vi prego, guardatelo qui. Sono convinto che strapperà una lacrima al mio inseparabile amico Sparacchino, con cui ho condiviso più floppy che parole per gran parte dell’infanzia.
Ma cosa aveva questo gioco in più della concorrenza? Cos’è quella ricetta che poi tutti avrebbero copiato e reinterpretato per gli anni a venire? Innanzitutto c’era un sistema punta e clicca, che oserei dire unico per il tempo, la fog of war (sì, davvero), la possibilità di riparare sia veicoli che edifici, il concetto di miglioramento per ottenere strumenti da battaglia più avanzati. E poi, per garantire la già altissima (per l’epoca) longevità del titolo, era possibile scegliere da che parte stare, prendendo il controllo delle forze Atreides, Harkonnen o Ordos. Un altro di quegli elementi grazie ai quali Westwood avrebbe fatto scuola. E per finire c’era la famigerata gestione risorse che, per quanto fosse già praticamente imposta dai racconti di Herbert, fu implementata in modo veramente fantastico con il doppio rischio di una cattiva gestione del rapporto entrate/uscite e con i vermi della sabbia pronti a fare un sol boccone delle povere mietitrici.

La Westwood da lì ad un paio d’anni avrebbe lanciato Command & Conquer, una vera e propria pietra miliare della storia dei videogiochi che avrebbe migliorato di molti ordini di grandezza quanto visto in Dune II: il progresso tecnologico (che in quegli anni aveva una velocità ancor più vertiginosa di oggi) che regalava molta più potenza di calcolo rispetto al 1992 avrebbe permesso di migliorare la grafica ed il path-finding, l’automazione dei compiti delle unità, il raggruppamento e gli ordini collettivi.

Dopo il successo di quel meraviglioso Dune II, che io ricordo ancor più bello perché legato alla mia infanzia, quello degli RTS divenne uno dei generi più trattati e più popolari, oltre che uno dei più remunerativi; ogni anno i nuovi titoli uscivano a decine copiando spudoratamente, facendo passi indietro, regalando lampi di genialità, balzando improvvisamente avanti. Le innovazioni che si susseguirono nel corso del tempo sbocciando come fiori sul vigoroso ramo principale del genere furono molteplici e continue, ma sfido chiunque a non riconoscere un po’ del lavoro di quegli anni fantastici e spensierati nei prodotti milionari che si vedono oggi e che spacciano troppo spesso realtà acquisite come novità assolute. Insomma, a conclusione di questo sconnesso e zoppicante articolo scritto da un vecchio stanco e distratto, posso dire con assoluta certezza che l’entità che tutti noi videogiocatori dovremmo ringraziare per tutti gli RTS di cui abbiamo goduto e continuiamo a godere esiste (o meglio esisteva) e si chiama (chiamava) Westwood, azienda chiusa nel 2003 dalla ragione del quattrino, per mano di mamma EA.

Grazie Brett e Louis. Grazie ragazzi.