Valleys of Neptune

Uscito nel marzo del 2010, l’album Valleys of Neptune è l’ultima opera postuma dell’indimenticato Jimi Hendrix. Raccoglie 12 brani inediti del chitarrista di Seattle, uno dei più grandi della storia del rock. Il più grande sperimentatore in assoluto, secondo il mio parere.

Valley Of Neptune illustra la straordinaria evoluzione creativa di Jimi Hendrix durante il 1969, l’anno più tumultuoso della sua celebre vita.

Questi 12 brani, includono le registrazioni finali effettuate in studio dall’originale trio “Jimi Hendrix Experience“ e testimoniano l’obiettivo perseguito da Hendrix: creare il seguito dell’album Electric Ladyland.

Nelle settimane precedenti, grazie a questo album, ho scoperto un Hendrix nuovo, un visionario sperimentatore che si era spinto molto più in là di quanto non fosse possibile comprendere dalle sue opere precedenti. Ascoltando, infatti, anche le altre due opere create grazie alla indicibile quantità di registrazioni eseguite dalla band del buon Hendrix, Studio Haze e Studio ’67, ho finalmente compreso quanto potente fosse negli anni Sessanta il suo messaggio musicale e la sua carica di innovazione. Messaggio che peraltro ha superato in maniera egregia la prova del tempo risultando ancora oggi pregno di una bellezza senza eguali. I suoi riff, il suo trasporto, i suoi effetti, le urla ed i gemiti della sua donna a sei corde… Questo Valleys of Neptune esplode nella mente raccontando quell’Hendrix che non era sul palco di Woodstock a bruciare chitarre ma molto più in là, altrove.

Valleys of Neptune album

Ben undici dei brani proposti in questo album provengono dalle registrazioni eseguite durante la preparazione del celebre doppio Electric Ladyland. Quel lavoro rappresentò molto per Hendrix e la sua crescita creativa, con le estenuanti sessioni di registrazione, troppo lunghe per gli standard dell’epoca, con la fine del rapporto tra la band ed il suo storico produttore, Chas Chandler, e soprattutto con la rottura definitiva del rapporto tra Jimi ed il bassista Noel Redding.
Il tour europeo del Gennaio 1969 aveva infatti rivelato la crescente disarmonia all’interno del gruppo, specialmente tra Hendrix e Redding, il cui rapporto non era mai stato solido ed era già stato incrinato nei mesi precedenti alla registrazione di Electric Ladyland.

Fu in questo contesto che Hendrix registrò, nel corso di diverse sessioni di registrazione, i brani raccolti per la prima volta in quest’album.

Lo studio di registrazione aveva assunto ormai un ruolo focale nello sviluppo di nuovo materiale e nella sua visione progettuale, come dimostrato ampiamente dalle tracce di Studio ’67, che vi consiglio vivamente.
All’interno di questo ambiente creativo, sfuggendo alle incessanti richieste delle esibizioni dal vivo, Jimi intendeva esplorare e sperimentare nuovi pattern ritmici da inserire poi all’interno della struttura formale di nuove canzoni. Continuava a sperimentare al limite del possibile, tenendo fede alla sua dichiarazione del 1968 circa i suoi “piani incredibili” [I have plans that are unbelievable, but then wanting to be a guitar player seemed unbelievable at one time], concedendo al rock una dimensione nuova fatta di ottoni, sitar, chitarre, percussioni.

Jimi Hendrix Experience

Questo cambio fondamentale nella strategia confondeva Redding, il quale non condivideva la filosofia di Hendrix e considerava eccessive le molte take che il chitarrista richiedeva durante le sessioni. Fu per questo che nel Giugno 1969 Jimi Hendrix contattò il bassista Billy Cox, sperando che il suo vecchio amico potesse essergli di aiuto in questo periodo difficile della sua carriera.

Le prime sessioni di Jimi con Cox e Mitch Mitchell furono armoniose e produttive, una benvenuta trasformazione dalla tensione che aveva pervaso il lavoro in studio del gruppo nell’anno precedente. Lo dimostrano la bellezza e la potenza di questo album.

Jimi Primo Piano Stretto

La mia canzone preferita? In realtà non ne ho una, ma certamente la più interessante è, per me, la traccia che da il titolo all’album. Si tratta di un folgorante esempio di rock psichedelico alla Hendrix, ricco di una complessità armonica costruita con sapienza attorno ad un ritmo cangiante. Le linee disegnate dalla sua chitarra e le sapienti scelte di effetti danno poi quel marchio di fabbrica dell’indimenticabile genio di Seattle.